Colori di Luce, 2010, a cura di Saverio Simi De Burgis
Il senso e il valore della luce da sempre permea la ricerca dell’artista. In tale accezione diventa essenziale strumento di lettura registrando lo scarto stilistico di un’opera, la sua cifra distintiva. Con tale consapevolezza Raffaella Benetti si inoltra in una ricerca sul colore e sulla luce che rivela infinite variabili sullo stesso soggetto. Multiplicatio et variatio universorum riscontrabile nelle originarie concettualizzazioni dei teologi medievali per i quali la luce è motore essenziale di ricerca con esiti storico-artistici fondamentali. Si prenda in considerazione le disquisizioni di Witelo sul colore e la luce, riprese poi da Bonaventura che, appunto, intende la luce come principium coloris, intesa, in sostanza, come vera bellezza. Non si possono disgiungere tali teorie dall’implicita riconsiderazione dell’arte bizantina affermatasi in concomitanza alla diffusione del rito greco-ortodosso e così suggestivamente rappresentata dalla tradizione musiva e delle icone che in un certo qual senso giunge fino a caratterizzare lo stupefacente esito delle vetrate delle cattedrali gotiche, “finestre” che concretamente filtrano la luce tra spazio esterno e quello interno in un’avvolgente e cangiante policromia. Punto di partenza imprescindibile e d’obbligo della ricerca sulla luce rimane la contemplazione della natura che in seguito si esplica principalmente nel soggetto del paesaggio o delle “vedute” fino a compiersi, in completa autonomia di ricerca, nell’esplosione dell’affermazione dell’impressionismo e del postimpressionismo. Per una versione prevalentemente metafisica rimane fondamentale il riferimento alla corrente, più o meno sotterranea ed evidente, del simbolismo che dall’arte bizantina arriva, attraverso Gustave Moreau e Henri Matisse, al cubismo orfico dei dischi simultanei e delle “Finestre”di Robert Delaunay, fino alla ricerca, definita da molti critici “zen”, di Mark Rothko. Nelle attuali opere di Raffaella Benetti è evidente quanto proprio Rothko rivesta un importante ruolo di riferimento anche se rimeditato e interiorizzato grazie alle riletture dei testi di Vladimir Solov’ev e di Pavel Florenskij quest’ultimo introdotto in Italia da Elémire Zolla e attraverso un accostamento, a lei congeniale, alla poesia-preghiera di Cristina Campo. Si avverte nelle opere della nostra autrice una notevole cura, frutto di una raffinatezza innata, evidente nella stessa scelta del supporto cartaceo, materia per la quale rivela una particolare predilezione e che idealmente le acconsente di considerare sullo stesso piano il segno, la composizione pittorica e la scrittura, inoltrandosi nella sua ricerca come se si trovasse di fronte alle pagine vuote di un diario. L’artista procede per sovrapposizioni cromatiche a larghe campiture, solitamente utilizzando colori a pastello che le consentono di ottenere, a seconda della qualità della carta utilizzata, effetti vellutati come se fossero stesi superficialmente sopra una preziosa lana, oppure caldi risultati soffusamente “cerati” quasi a ricordo dell’antica tecnica a encausto. All’interno dei suoi dipinti si avvertono, in taluni casi, delle improvvise accensioni luministiche come se l’autrice volesse tradurre il senso e il valore di vere e proprie epifanie all’interno delle proprie opere, forse apparizioni angeliche a loro volta intese come fonti ed emanazioni di luce. Per esprimere più sinteticamente ed efficacemente tali contenuti in merito alle attuali opere in mostra di Raffaella Benetti e che ne denotano la cifra originale, risulta sicuramente ancora calzante il primo verso dell’epigrafe ravennate riportata all’interno della cappella arcivescovile, già letta e annotata dallo storico Andrea Agnello: “Aut lux hic nata est aut capta hic libera regnat”, il che significa, appunto: “O la luce è nata proprio qui oppure, fatta prigioniera, qui regna libera.