A FLOWER, A FRUIT, A POMEGRANATE interview I by Christina Magnanelli Weitensfelder in #AIM the book of visual art – N° 72 W/S 2016 – pp 56-59
Un piano forse liquido, forse solido, forse gassoso. Un fiore, un frutto, un melograno. Amo il nero che contiene tutto e dal quale tutto emerge. L’emersione presuppone una precedente immersione, che in questo caso è temporale: il colore si trasforma in linea di confine, un prima e un dopo, storia e cronaca del presente. Affiora la pelle come una narrazione simbolica, dove il protagonista si mostra con la sua reale forma disidratata. In questo caso la mistificazione fotografica consiste nella preparazione del piano, nell’imbandire la tavola per un pasto di un solo frutto, di un solo fiore. Vanitas, tema ricco come pochi altri di simbologie e rimandi allegorici, mi ha sedotta con il suo fascino suggerendo una meditazione sull’effetto che il tempo provoca sulle “cose di natura”, la loro fragilità, trasformazione, decadimento della materia, decadimento che conserva una sua profonda bellezza. La vita è trasformazione. L’oggetto che Raffaella Benetti pone sul piano d’appoggio, non è un rimando diretto alla morte, alla semplice riflessione sulla caducità della vita. Nel momento stesso in cui un frutto o un fiore vengono staccati dal proprio ramo si interrompe la comunicazione con la propria fonte di sopravvivenza. E l’acqua in cui immergiamo i loro steli è un inganno momentaneo, un trucco per goderci l’estetica di un trapasso. Come fosse una fotografia post mortem in cui il corpo è ancora intatto e non mostra i segni di un veloce cedimento. Ma se la fotografia post mortem vuole ingannare l’osservatore, con le stesse goffe modalità, in cui si lascia un fiore reciso in un vaso a riempirsi d’acqua che mai potrà restituirgli la vita, la ricerca di Raffaella Benetti insiste sull’estetica del corpo vissuto, del corpo che mostra non solo i segni dell’invecchiamento, ma anche quelli della sua dipartita, quelli che nessun intervento potrebbe mai risanare. La sua è una ricerca anche estetica (nell’accezione alta del termine), di quell’attrazione per una pelle fragilissima, che si sfoglia pian piano, di cui non rimarrà nulla. Quello che viene mostrato è quel tempo che succede alla morte prima di un annullamento fisico, inteso come scomparsa della materia. Nella serie fotografica Vanitas, ho voluto evidenziare in modo esplicito l’iterarsi dell’indizio lasciato dal tempo, variato a seconda del frutto o del fiore toccato. La spaccatura del melograno, con i suoi semi quasi messi a nudo dal colpo di luce, ferita purpurea, le fragole nel loro massimo rigoglio e freschezza opposte al loro avvizzimento, il fico nella sua metamorfosi, la calla appassita, sono aspetti che amo cogliere. Il tempo bloccato e offerto all’attenzione. La tensione emotiva che derivano è ciò che cerco. Tutto questo viene alimentato da una cultura filosofica-letteraria, spesso da sollecitazioni che si vogliono trasformare in immagini, in percorsi iconografici. Letture e studi.La musica e la poesia alimentano il mio lavoro. John Cage, Francis Ponge, Yves Bonnefoy, Mallarmé, sono punti di partenza su cui costruire un percorso. Molte fotografie si riferiscono a poemi che ho letto. Penso ad esempio al “Pomeriggio di un Fauno” di Mallarmé e a ciò che la parola ha provocato dentro di me. Il Melograno, questo frutto che osservo da sempre in realtà ha iniziato a esistere veramente da quel preciso momento, da quell’istante. Non voglio cogliere una visione di superficie, ma sconfinare attraverso l’atto fotografico in una dimensione altra, oltre la forma esteriore. La traduzione della parola in immagine ha un effetto immediato, simultaneo. E’ quindi l’altro tempo, il Kairos, l’istante che si coglie. Possiamo, probabilmente, considerare il Nero, la superficie monocroma che divide il Prima e Il Dopo, come una forma di narrazione. Quello che appare sulla superficie, il frutto o il fiore, è solo una risultante di ciò che sta sotto, del Tempo lungo di maturazione e apparente decadimento. Affiora solo una parola, quel nulla di inesauribile segreto. Perché, in questo caso, il lavoro di Raffaella Benetti è una ricerca della sintesi, è un labor limae che mostra poche sillabe per raccontare nascita, morte e possibili miracoli.